di Peter Asmussen
con Andrea Facciocchi Laura Ferrari Giovanni Battaglia/Fabrizio Parenti
Eros Zoppellaro Riccardo Martinelli/Emilio Zanetti
regia Michela Blasi
uno studio prodotto da Extramondo in collaborazione con Outis e Ambasciata di Danimarca in Roma
Appunti sul testo
Si parla di violenza e del limite tra il bene e il male.
Male gratuito, male necessario, male giustificato, male inconsapevole.
L’uomo occidentale ha creato questa netta separazione tra bene e male, vivendolo come tabù, quindi rifiutando di riconoscersi in esso.
Un uomo e una donna sono alle prese con quello che accade dentro e fuori di loro. Perdita di sensibilità e perdita dei sensi “
(…prima l’udito, poi la vista e dopo? Cosa viene dopo?”)
C’è un limite tra pubblico e privato, tra lecito e illecito?
E’ ancora possibile conservare uno spazio mentale per far vivere le proprie fantasie, allorché qualsiasi fantasia, anche la più estrema, è già stata realizzata?
Siamo circondati da orrende guerre, da crimini efferati, in famiglia, sui più deboli.
E noi?
Noi che leggiamo, che guardiamo i tg, che commentiamo, indaghiamo, giudichiamo… noi che ruolo abbiamo in tutto ciò?
Di cosa ci nutriamo, cosa veramente scegliamo?
Cos’è l’innocenza, se non quella di un bambino?
Cos’è vero, cos’è veramente giusto?
Sono queste le domande che ci pone l’autore attraverso questo testo feroce e commovente, scabroso e non morboso, le cui parole scavano al di là della nostra resistenza.
All’inizio vediamo l’uomo e la donna (magistrati, giornalisti, poliziotti?) che intervistano-interrogano tre uomini (uno anziano e due più giovani), facendosi raccontare ancora una volta che cosa è successo quella notte di Natale, quando nell’appartamento di uno dei tre (balordi?) il rito dei Re Magi si conclude con la violenza carnale e la barbara uccisione di un biondo ragazzino di 11 anni, chiamato per l’occasione Gesù Bambino.
Raphael, il più anziano “criminale”, prova un gran gusto a dimostrare quanto le persone – compresi gli stessi intervistatori – siano influenzabili, manipolabili.
Raphael appare crudele e spietato senza mezzi termini, ma si addossa la colpa dell’omicidio per proteggere il più giovane Erik. Ed Erik confessa alla fine, il suo gesto tremendo quale prova d’amore verso Willy.
Le risposte sono confondenti, ambigue, reticenti, sfrontate, contraddittorie, orribili. Il racconto è diretto, crudo, non concede nulla.
Ma sono le domande dell’uomo e della donna ad essere ancora più inquietanti.
Cosa c’è dietro quel chiedere, quel voler sapere, voler sentire e risentire: c’è veramente la ricerca della verità?
Che cosa si portano a casa la coppia lui-lei dopo quell’interrogatorio senza spazio e senza fine?
Nella scena che segue ritroviamo infatti l’uomo e la donna nel loro quotidiano.
Non si parlano, non si ascoltano.
Non è chiaro ciò che ognuno dice, se all’altro o a se stesso.
E c’è una bambina “di là”.
E c’è un bambino biondo, con una cicatrice, che bussa alla loro porta, ma la donna non sa fare altro che chiudergli la porta in faccia, sbarazzandosi si lui.
Si ride anche, di questo surreale momento di coppia; ci si può riconoscere dentro questa strana ipocrisia, quando certi pezzi di cronaca si catapultano nelle nostre case; ci si commuove nella tenerezza che ispira la fragilità umana di fronte a una voragine vuota, quando dovrebbe sopravvivere, almeno nell’intimità di una coppia, quel “calore”.
Ora basta, la bambina potrebbe svegliarsi.
Nel secondo atto ritroviamo l’uomo e la donna che questa volta interrogano un soldato. un “casco blu”.
Il soldato è allo stesso tempo vittima e carnefice delle regole militari.
Si sente “costretto ad agire”, trasgredendo gli ordini, quando spara ai quattro uomini che avevano violentato e seviziato una giovane donna; allo stesso tempo protegge un’altra donna, rischiando la vita, ma quella protezione è ricambiata dalla possibilità di entrare nella stanza delle quattro bambine (“la più piccola in fasce, la più grande nove anni”). Con quelle terrorizzate bambine, in un casolare risparmiato dalle bombe, scambia le prime carezze della sua vita.
Piange, Jacob, il soldato, mentre emerge questa verità, mentre l’uomo lo incalza e la donna lo abbraccia.
Nel finale ritroviamo l’uomo e la donna nel loro spazio privato.
E anche qui i compromessi non servono più.
Si è costretti ad agire, a ferire, ad uccidere, per uscire da uno schema, per accettare anche il male.
E quella bambina “di là”, che sembrava una scusa, un pretesto, quasi un alibi, finalmente si fa sentire. Fa sentire il suo pianto. Fa sentire che è viva.
Un incontro
Quando lessi per la prima volta il testo ebbi una reazione emotiva così forte da credere di non poterci lavorare.
Superato lo choc e gestita la mia sensibilità anche di madre, ho potuto considerare e apprezzare le modalità con cui Asmussen, in una apparentemente semplice costruzione drammaturgia, ha trattato i delicati temi dell’opera, la sua totale assenza di giudizio, il suo porre le domande e scavare, scavare, offrendo percorsi dolorosi per cercare di mettere in luce quello che noi forse siamo.
Con un gruppo di cinque attori appassionati ho allestito una lettura scenica a “Tramedautore”(con Giovanni Battaglia tra gli attori, poi sostituito da Fabrizio Parenti): un’opportunità per sperimentare queste parole di fronte a un pubblico, verificarne la reazione, un’occasione anche per conoscere l’autore.
Appunti sulla messa in scena
Lo spettacolo prevede due luoghi dove si svolge l’azione: quello pubblico delle “interviste/processi”; e quello privato, della casa.
Asmussen ha intitolato ”concerto grosso” e “trio elegiaco” i due processi, come a suggerire, attraverso la musica, luoghi astratti, non definiti, quasi dopo la vita.
Lo spazio è disegnato da volumi che mettono i personaggi su piani e livelli differenti, fortemente connotato da tagli di luce decisi, a sostenere la crudezza delle parole e la dinamica dell’interrogatorio.
Non ci sono “colori”, nessun fronzolo, niente spettacolarizzazione dei “crimini”, ma grande concentrazione sulle relazioni tra i personaggi e sulla tensione delle parole. Il percorso è una spirale che mira al centro, al nocciolo, al cuore.
I due intermezzi chiamati “estate” e “inverno” sono invece lo spazio privato, la casa dell’uomo e della donna. Qui l’atmosfera è diversa, il contesto più riconoscibile.
La quotidianità di gesti e oggetti stride con il nevrotico modo di relazionarsi dei due. Il loro parlarsi è grottesco, sembra paradossale, ma scopriamo che è del tutto plausibile.
La scommessa di Asmussen (me l’ha detto lui) è portare il pubblico alla risata immediatamente dopo il pugno nello stomaco inflitto col racconto dei crimini nei processi. Scommessa difficile, non impossibile.
Ma non si tratta di siparietti con la semplice funzione di alleggerimento. Queste due scene a chiusura dei due atti contengono invece molteplici elementi da mettere in luce e offrono diverse chiavi di lettura.
E’ interessante cercare di sviscerare quella che è la ricaduta nel nostro privato di ciò che viene enfatizzato all’esterno; l’ombra di un possibile inconscio ma inesorabile processo di identificazione; il discorso sui sensi e sulla sensibilità; il tema dell’innocenza e dell’infanzia, non esplicitato nel testo ma continuamente evocato da questa “bambina” (la nostra purezza che non vogliamo risvegliare?) ed associato alle giovani vittime dei crimini descritti nei processi.
Sonorità particolari contribuiscono a creare atmosfere rarefatte e straniate.
Scrive Antonio Spinacci:
Lo spettatore al primo momento è come in trance, posseduto da parole gli giungono spogliate da convergenze immediate, da riferimenti e controlli che lo possano guidare alla comprensione di ciò che sente provenire dalla scena. È questo il segreto e il punto focale di questo spettacolo che chiama in causa soprattutto la futura elaborazione dello spettatore. Si torna a casa pregni e responsabilizzati più che conquistati dall’antologia di parole che esprimono il dolore e l’accanimento che questo perpetua sull’uomo. Beffardamente è quasi un merito elencare il male, ricordarlo come essenza umana, dato che gli stessi “inquirenti” si sentono in dovere di ringraziare ripetutamente imputati e testimoni. Grazie, grazie, questo il ritornello che scandisce le pause delle confessioni più agghiaccianti. La parola condivisa come dovere, tanto che l’interrogatorio non è solo da parte di chi interroga ma anche da parte di chi risponde, esterrefatto dalle proprie parole, incredulo che esse rappresentino una sorta di insostituibile verità e necessità umana. Possibile che il male sia così autoreferenziale? Così onnipresente e onnicomprensivo? La parola, la voce del male cala in platea non per sorprendere ma per confermare (non forma spettacolo ma solo dizionario) ininterrotto flusso ahimè ormai naturale come il fluire di un fiume. Teatro di parola, di pessimismo che va oltre se stesso, voce insostituibile, non intercambiabile nemmeno con l’azione teatrale, con i gesti, le pantomime, la scena, le quinte, teatro verità senza la didascalia, niente di Brecht e molto di Bernhard. Teatro povero perché fatto di una essenzialità “civilizzata” dall’uso fin troppo lucido della parola. La parola! Questo il moto dell’immobilità di scena e attori, tutti bravi e convincenti. È talmente puntuale la parola nello sceverare l’abisso del male e del dolore che nei “siparietti” coniugali (bellissima invenzione teatrale) si arriva a numerare la perdita “cronologica” dei sensi: prima l’udito, poi la vista, e dopo…dopo, cosa viene dopo? L’odorato, il moto degli arti, il mutismo…la paralisi! Ma allora servirà essere sordi e ciechi, non vedere e non ascoltare più il male? Viene quasi da pensarlo. Gli antichi miniaturisti arabi si accecavano con le loro stesse mani per essere più vicini ad Allah, in maniera di fare della loro pittura pura trascendenza. Ma è così universale il male che non può scindere tra oriente e occidente. Non c’è cecità che ci possa alleviare. Siamo condannanti a non poter fare a meno del male, a dire grazie quando del male ne sappiano di più, quando cresce in quantità e intensità.. Resta il riscatto del teatro e il “grazie” che ancora gli dobbiamo.
Lo studio di “Crimine” è stato presentato al Piccolo Teatro-Teatro Grassi di Milano per “Tramedautore” e al Festival “Dissezioni” al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, in collaborazione con Outis, Centro Nazionale Drammaturgia Contemporanea, Teatro Out Off e con il contributo dell’Ambasciata di Danimarca in Roma.